Ma i dati più dirompenti sul piano politico sono sicuramente quelli legati all’acqua e al nucleare. Fino a pochi mesi fa, infatti, l’investimento sull’energia nucleare era condiviso in maniera pressoché bipartisan, e la privatizzazione dei servizi pubblici – acqua in primis – poteva contare sull’assoluta unanimità delle forze politiche parlamentari. La straordinaria mobilitazione di questi mesi, in evidente continuità con il movimento studentesco dello scorso autunno, è riuscita in un risultato senza precedenti: far diventare legge dello stato ciò che fino all’inizio della primavera era considerato un obiettivo ambizioso di pochi idealisti, cioè la ripubblicizzazione del servizio idrico. Non per niente proprio su questo argomento si sono già scatenate le lobby neoliberiste e tecnocratiche trasversali agli schieramenti. Sabato scorso il Sole 24 Ore ha pubblicato un articolo di Ginevra Bruzzone e Stefano Micossi (presidente del Gruppo Cir, la holding di De Benedetti) in cui si denunciava che «il vero effetto del referendum […] è di consentire alle camarille locali di rinviare il cambiamento e continuare a mungere i loro piccoli feudi ancora per un poì» e che «il prevalere del sì lascerà gli utenti con servizi sempre più scadenti» con «l’intervento sussidiario di fornitori privati, spesso anche di origine malavitose», mentre tra gli ambienti accademici gira una petizione, firmata da Antonio Massarutto, Alessandro Petretto, Pippo Ranci, Luigi Spaventa, Tito Boeri, Claudio De Vincenti, Mario Sebastiani, Andrea Boitani, Marco Ponti e altri, secondo cui «il referendum sta distraendo l’opinione pubblica distorcendo i problemi e prospettando false soluzioni» e c’è bisogno di «soggetti comunque guidati da una razionalità economica e non più enti erogatori privi di vincolo di bilancio», perché «la soluzione per finanziare costi e investimenti nel settore idrico non sono la fiscalità generale e la spesa pubblica».
Insomma, neanche il tempo di iniziare ad annusare l’odore del quorum, e già i soliti noti hanno iniziato a preoccuparsi di come distorcere la volontà popolare. Non è un caso che l’editoriale con cui Eugenio Scalfari su Repubblica invitava a votare 4 sì non dicesse una sola parola sul merito delle questioni legate all’acqua e al nucleare, limitandosi all’appello alla spallata antiberlusconiana. È evidente: questo risultato, la scelta politica per le energie rinnovabili e per la ripubblicizzazione fatta dalla maggioranza assoluta degli italiani, non era voluto e non era previsto, perché mette in crisi il quadro politico degli ultimi anni, e svela la distanza siderale tra rappresentanti e rappresentati: in parlamento l’unanimità per la privatizzazione, nella società la maggioranza assoluta per la ripubblicizzazione. Per questo il voto di oggi rappresenta un punto di svolta nella storia recente del nostro paese: ciò che sosteniamo da anni, cioè che un sistema politico chiuso e autoreferenziale non rappresenta le reali istanze dei cittadini, è stato inequivocabilmente dimostrato.
Quella di oggi è la nostra vittoria, la vittoria dei soggetti sociali organizzati che sul tema dei beni comuni, attraverso tutte le mobilitazioni degli scorsi mesi, hanno saputo costruire una coalizione sociale ampia, in grado di essere maggioranza e di cambiare realmente le cose. Nessun estremismo, nessuna nicchia identitaria, nessuna chiusura settaria, ma la volontà di intercettare ed esprimere istanze reali e condivise, in una parola popolari. C’è una maggioranza, in Italia, che vuole che i beni comuni siano gestiti in maniera pubblica e democratica, che non accetta la militarizzazione dei territori provocata dal nucleare, che rivendica, restituendo dignità all’istituto referendario, il diritto e il desiderio di farsi legislatrice dal basso, di non volersi rassegnare alle ingiustizie e stanca di subire passivamente scelte così importanti da parte di una politica oramai incapace di affrontare i veri problemi provocati dalla crisi. Bene è proprio il caso di dirlo, questo voto referendario, mette anche in crisi un sistema di potere. E’ l’ennesima dimostrazione che il popolo non è un gregge da ammaestrare ma anzi è la base da cui ripartire per una vera e propria riscossa civile e sociale. Questa vittoria è un monito per chi governa, ma è anche un monito per un’opposizione troppo spesso balbuziente sui grandi temi che riguardano la vita concreta di tutti e di ciascuno.
Il legame con questo è successo nelle scorse settimane in Egitto, in Spagna o in Grecia, o con il movimento studentesco contro la legge Gelmini, è evidente: siamo noi, siamo il popolo che fa la legge, e non smetteremo di rivendicare e praticare il nostro ruolo. Oggi abbiamo vinto, ma non ce andiamo: la battaglia per la ripubblicizzazione dei beni comuni, dei saperi, del lavoro, per la dignità di ogni essere umano, non è finita.
Non tentate di fregarci, noi siamo qui e non ce ne andiamo!

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